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Sergio Gabriele - Mauro Rea, Animalità migrante

 Nell’assunto autoptico della realtà mediata dallo sfacelo, che finisce per diventare anche cromatico e  formale, Mauro Rea estrae il bestiario delle origini, quasi fossero dei feti naturali restati congelati nel tempo impossibile della resa finale. Trattasi di riesumazione postuma di categorie di bestie mai esistite e che si fanno glossario nel momento in cui il loro nulla viene rievocato, allo scopo di fissare nella memoria dell’uomo il concetto di buco, nero o a colori, di amnesia traumatica, dissociazione multipla e la miriade di concrezioni schizofreniche che l’uomo è stato tanto bravo a cumulare quanto negligente nella tesorizzazione del maturato.

Le bestie di Mauro, grossolane nel loro pachidermico risveglio, non sono un arcimboldo della materia semplicemente spenta e compromessa, ma rappresentano figure totemiche, gli spilli dell’antropofilia voodoo, il cane guida per la cecità ambulante nella radianza dei colori della vita, e quindi dei tramite sensoriali che si risvegliano dal letargo delle ere future incombenti e sfilano, come ad una mostra canina, mostrando la fierezza di un levriero afgano piuttosto che il blob informale di mutanti decifrabili attraverso il loro sesso indistinto, laidamente deposto quale condotto naturale attraverso cui interpretare l’impossibile, lateralmente acceso come il fuoco che ci deve portare dall’altro lato.

L’altro lato è quello dei tabù ancestrali e post-moderni dell’uomo incapace anche ad estinguersi, che ha individuato sempre, in una specie animale nuova scoperta, una insidia da schiacciare, una vita da erompere e cancellare semplicemente perché sua maestà l’uomo con la U di merda, come dice Tullio Coraggio, non la conosceva, non l’aveva mai vista prima e quindi se ne sentiva insidiato nel suo potere friabile che peraltro, questo sì, non è mai esistito.

Le bestiacce di Mauro tornano dal passato, come gli zombie, ad avvelenare i sogni dell’uomo disonesto, ad agitare spettri delle nuove specie clonate e clonabili, ad abitare gli spazi che l’uomo ha lasciato incustoditi, come colture secolari estinte, su cui gli animali clonati o assemblati non riescono neanche a defecare, forse perché coscienti che le loro feci sono veleno che poi gli stessi inventori chiamano maledizioni, anatemi dai quali giustamente difendersi, a costo di rimodificare il corredo genetico, ripartire da capo, un capo che non esiste nella follia scomposta di genere.

Animalità migrante, quindi, tribale, di quando l’uomo non ancora compromesso ne emulava i tratti, cercava saggiamente di assomigliare a loro, con piumaggi, grandi occhi o grandi ali, per rispettarne l’imprinting di cui, anche quando si era costretti a mangiarli, altra defe(ca)zione cosmica della U, se ne onorava la discendenza e le pelli di cui si coprivano, oltre che per bisogno, rappresentavano la metempsicosi, l’emulazione da parte di una specie che si avvertiva già imperfetta e virale all’osso.

Un saggio sciamano moderno, semplicemente un anziano, ebbe a dire: gli animali sono come i bambini, seguono chi li ama”. Gli animali di Mauro Rea sono così, talmente benevoli e accondiscendenti verso l’uomo buono, da emularne, alla maniera degli antichi indios, le fattezze, e non attraverso trofei che passano per l’uccisione, ma semplicemente con l’andatura, la movenza, sia cromatica che formale, come se seguissero l’uomo benevolmente sbeffeggiandolo e irridendolo, copiandone i gesti anchilosati frutto di una convalescenza sbagliata, al contrario dannosa, come tante terapie oggi ostentate come omicidi preterintenzionali.

Sergio Gabriele


Mauro Rea - Lo sguardo Oltre A GRM  - polimaterico coll. privata, Campobasso

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